Arbegnuoc, i patrioti etiopi

Arbegnuoc (“patriota”) è la denominazione assunta dai combattenti etiopici che dopo la fine ufficiale della guerra d’Etiopia (maggio 1936) e l’esilio del Negus Hailé Selassié, continuarono a combattere contro l’esercito italiano per opporsi all’occupazione italiana e alla perdita dell’indipendenza.

Gli arbegnuoc nella loro lotta contro le truppe nazionali e coloniali italiane, dovettero adottare tattiche nuove di guerriglia che si distaccavano profondamente dalla tradizione militare nazionale fondata sul coraggio personale e sullo scontro in campo aperto di fronte al nemico, essi stessi giunsero al punto di definire la loro guerra di guerriglia una “guerra dei codardi”, pur comprendendo che solo queste tattiche sarebbe state “la via che ci permetterà di sconfiggere gli italiani”.

Immagine di ArbegnuocLa nuova organizzazione degli arbegnuoc comprendeva le forze combattenti regolari, il cosiddetto Dereq, che erano il nucleo più agguerrito e attivo in permanenza sul territorio, e una milizia irregolare, il Mededè, arruolata tra la popolazione contadina che veniva mobilitata per periodi limitati per rafforzare i combattenti del Dereq.

Questa struttura organizzativa permetteva agli arbegnuoc di costituire in brevissimo tempo gruppi d’azione numerosi ed aggressivi che poi venivano dispersi sul territorio in piccoli formazioni per evitare la reazione delle colonne coloniali italiane; anche i grandi capi si muovevano in bande costituite da un piccolo nucleo di fedeli guerrieri, 200-300 uomini, e in situazioni pericolose le formazioni di suddividevano in gruppi più piccoli e i capi, seguiti da poche decine di compagni, riuscivano ad evitare di essere intercettati.

L’attività della guerriglia si sviluppava soprattutto durante la stagione delle grandi piogge nel corso della quale gli arbegnuoc si impegnavano in numerosi, piccoli attacchi, diffusi sul territorio, contro vie di comunicazione, presidi militari e colonne isolate del nemico[87]. Essi disponevano di buone e numerose armi individuali, ma mancavano completamente di artiglieria e mitragliatrici.

Gli arbegnuoc trovarono notevoli difficoltà nel reperimento delle munizioni, e anche nel approvvigionarsi di cibo e acqua, essendo generalmente stanziati nelle zone più aride e impervie dell’altopiano; le bande guerrigliere si procuravano il vettovagliamento generalmente depredando i territori sottomessi o collaborazionisti con l’occupante; in misura minore ricorrevano alle modeste forniture dei contadini che sostenevano il movimento.

In battaglia gli arbegnuoc erano combattenti disciplinati e aggressivi che mostravano notevoli qualità combattive e una naturale abilità nelle manovre di infiltrazione e accerchiamento; agendo in gruppi autonomi, i comandanti delle bande più piccole eseguivano spontaneamente le manovre sul campo, seguendo le direttive generali dei grandi capi[86]. I guerriglieri abissini erano estremamente mobili e molto coraggiosi; inoltre non necessitavano di grandi apparati logistici.

Immagine di Arbegnuoc

Tuttavia, non disponendo di armi pesanti, non avevano la possibilità di conquistare posizioni nemiche solidamente fortificate né erano in grado di difese prolungate; le bande sfuggivano sfruttando le loro capacità di movimento. Privi di moderni sistemi di comunicazione; in battaglia gli arbagnuoc utilizzavano segnali di fumo o il suono dei tamburi per comunicare tra loro.

Gli arbagnuoc combattenti potevano sfruttare il sostegno presente in gran parte della popolazione; in particolare era attivo un vasto apparato di spionaggio e cospirazione che aiutava la resistenza; i cosiddetti ya west arbagnoch erano militanti che agivano nella massima segretezza dall’interno e fornivano informazioni e aiuti di personale specializzato e materiali; i qafir invece erano resistenti che individuavano tempestivamente i movimenti delle truppe italiane e avvertivano in anticipo i reparti combattenti.

I contadini infine sostenevano la resistenza con l’erogazione di tributi e la distribuzione di vettovaglie; in caso di azioni repressive, essi abbandonavano i villaggi e seguivano gli arbagnuoc. I patrioti etiopi cercavano in ogni modo di stimolare la resistenza nelle campagne e di estendere il consenso alla loro lotta; spesso ricorrevano alla propaganda organizzando missioni improvvise nei mercati dei villaggi per illustrare le loro azioni e leggere i proclami dei grandi capi della resistenza.

Anche le donne parteciparono attivamente al movimento di resistenza; all’interno delle bande erano sempre presenti le cosiddette gambogna, le portatrici che svolgevano un fondamentale compito logistico trasportando i viveri e le bevande lungo le interminabili marce negli altopiani. Altre donne svolsero compiti di vivandiere, staffette o infermiere; non mancarono tuttavia neppure personalità femminili con incarichi di comando militare all’interno del movimento arbegnuoc.

Il principale elemento di debolezza degli arbegnuoc fu costituito dall’insufficiente coordinamento e dalla mancanza di una reale dirigenza centralizzata in grado di sviluppare un progetto strategico unitario; le insurrezioni si svilupparono a livello territoriale in modo autonomo sotto la guida dei capi locali senza un collegamento con rivolte in altre zone del territorio etiopico.

Questa mancanza di coordinamento era dovuta in parte alle oggettive difficoltà di comunicazione ma anche alla tendenza, tradizionale nella cultura etiopica, all’autonomia locale. Inoltre i grandi capi della rivolta generale iniziata nel 1937 non erano più i vecchi ras e la gerarchia tradizionale dell’impero ma elementi nuovi provenienti da livelli medio-bassi della dirigenza che assunsero prestigio e potere sulla base della loro capacità e del loro coraggio sul campo.

La resistenza, iniziata soprattutto come movimento di difesa contro la brutale repressione dell’occupante, si trasformò nel tempo in un movimento popolare di massa privo peraltro di connotazioni rivoluzionarie e di istanze sociali radicali; gli arbegnuoc combattevano in grande maggioranza per ripristinare la vecchia società feudale etiopica e i dirigenti erano sempre legati al Negus.

Reparto di àscari eritrei; furono le truppe coloniali che, guidate da ufficiali italiani, condussero le operazioni di repressione.

Gli arbegnuoc, guidati da capi abili e determinati, continuarono a battersi con crescente efficacia per tutto il periodo del dominio coloniale italiano e misero in seria difficoltà l’occupante mantenendo il controllo di vaste zone del territorio etiopico, nonostante le grandi operazioni di polizia coloniale intraprese dai vari comandanti italiani, condotte soprattutto con l’ausilio del Regio corpo Truppe Coloniali, che schierava ascari eritrei e somali.

Con l’inizio della seconda guerra mondiale, gli arbegnuoc fornirono un importante aiuto alle truppe britanniche contribuendo alla vittoria e alla liberazione del territorio nazionale.

Il 5 maggio 1941 le forze britanniche e sudafricane del generale Alan Cunningham fecero ingresso in Addis Abeba insieme a 800 arbegnuoc del famoso capo guerrigliero Abebe Aregai. Da quel giorno, in Etiopia viene festeggiato ogni anno lo Arbegnoch Qen (የአርበኞች ቀን), il giorno degli arbegnuoc, in onore dei patrioti della resistenza.

Parlando un  po’ di numeri, si stima che gli arbegnuoc impegnati nella guerriglia furono a secondo delle varie stagioni dell’anno; un numero variabile tra i 40.000 e i 100.000, attivi soprattutto nelle regioni dello Scioa e del Goggiam; la popolazione contadina incrementava questo numero partecipando temporaneamente alla lotta e unendosi alle bande.

Guerriglieri etiopici ad Addis Abeba liberata nel maggio 1941.
Guerriglieri etiopici ad Addis Abeba liberata nel maggio 1941.

Le perdite dovute alla repressione e alle operazioni di rastrellamento, furono pesanti; secondo i dati ufficiali forniti dal Negus, 75.000 “patrioti” furono uccisi in combattimento, 24.000 furono giustiziati dalle autorità nemiche, 35.000 morirono nei campi di concentramento; inoltre pesanti furono le vittime civili calcolate in oltre 300.000 persone.

I dati italiani sono in parte differenti; 76.906 sarebbero stati gli arbegnuoc uccisi, 4.437 i feriti e 2.847 i prigionieri; il modesto numero dei prigionieri rispetto ai morti conferma la durezza della guerra in Africa orientale nel periodo 1936-1941 e la grande carica di violenza dispiegata dall’apparato repressivo italiano per cercare di sottomettere le popolazioni e schiacciare la resistenza.

 

 

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