La tragedia del piroscafo Dubac

Il Dubac, sovraccarico di militari stipati in coperta, tosto immobilizzato, crivellato di mitraglia e inesorabilmente bombardato dal terrificante carosello aereo, più non governa e sbanda sulla fiancata di destra. Centinaia di soldati trovano la morte, sono orrendamente feriti, dispersi in mare periscono per annegamento. Con paurosa inclinazione il relitto, col suo carico dolorante, raggiunge Capo d’Otranto e si incaglia sulle scogliere. Lo visiterò qualche giorno più tardi, rendendomi conto con maggiore esattezza dell’immane sinistro.

dal memoriale del sottotenente Medico Alessandro Minozzi del 49° ospedale da campo della divisione “Perugia”

L’avvenimento che andiamo a trattare nel post odierno e uno dei tanti, troppo, tragici eventi che videro coinvolti i reparti del Regio Esercito a seguito degli avvenimenti dell’8 settembre 1943. Per la precisione ci troviamo in Albania, dove i reparti della divisione Perugia, si trovavano schierati come divisione di occupazione nelle vicinanze del confine con la Grecia, nella zona tra Permeti, Klisura e Tepeleni.

Le forze d’occupazione italiane in Albania, alla data dell’8 settembre 1943, consistevano nelle sei divisioni di fanteria inquadrate nella 9a Armata del generale Lorenzo Dalmazzo: la 11a “Brennero”, la 38“Puglie”, la 49a “Parma”, la 41a “Firenze”, la 53a “Arezzo” e la 151a “Perugia”. A Tirana oltre al comando della 9a Armata risiedeva anche il quartier generale del Gruppo d’Armate Est, che al comando del generale d’armata Ezio Rosi, comprendeva la 9a e l’11a armata.

Delle sei divisioni della 9a Armata, soltanto la “Firenze” prese fin da subito le armi contro i tedeschi, venendo poi progressivamente assorbita dalle formazioni partigiane locali; la “Parma”, la “Puglie”, la “Brennero” e la “Arezzo” vennero tutte disarmate dai tedeschi ed i loro uomini avviati alla prigionia, anche se alcuni riuscirono a scappare e (soprattutto della “Arezzo”) si unirono anch’essi ai partigiani.

Diversa fu la sorte della Divisione “Perugia” costituita dal 129° e 130° Reggimento Fanteria e dal 151° di artiglieria, al comando del generale di divisione Ernesto Chiminello che cercò di raggiungere in armi i porti per imbarcarsi verso la madrepatria. La marcia dei due diversi tronconi che componevano la divisione venne fortemente contrastata sia dalle formazioni germaniche sia dai partigiani albanesi, che cercavano in ogni modo di impossessarsi delle armi della stessa.

Nel pomeriggio del 21 settembre 1943, due aerei italiani si abbassarono sulla colonna di soldati della “Perugia” in ritirata presso Delvino, e lanciarono un messaggio a firma del Capo di Stato Maggiore Generale Ambrosio indirizzato al generale Chiminello:

“Mantenete la Vostra salda compagine: resistete ed attendete fiduciosi i soccorsi che stanno per giungere a Porto Edda, per restituirvi alla Patria che vi attende con orgoglio.” 

I soldati, rinvigoriti dalla speranza dell’imbarco e del ritorno in Italia, proseguirono con maggior vigore nella lunga marcia che si sperava dovesse portarli alla salvezza. Il 22 settembre i superstiti della Perugia raggiungono Santi Quaranta. Nella cittadina portuale riparano sbandati da diverse località dell’interno dopo marce epiche ed estenuanti: molti uomini della Divisione Parma e del 130° Reggimento della Divisione “Perugia”, fuggiti nel campo di concentramento di Drashovica, ove erano reclusi.

Un primo gruppo si imbarca per Brindisi la sera del 22 settembre accompagnato dal Tenente Colonnello Emilio Cirino, Comandante del II Battaglione Ciclisti del 129° Reggimento, che torna in Albania con le navi Dubac, Salvore e Probitas la sera del 24 con l’ordine di rimpatriare i soldati riempiendo le navi al massimo della loro capienza.

Già un primo convoglio, formato dalla motonave Probitas e dalle torpediniere Sirio e Clio, aveva raggiunto Santi Quaranta il 19 settembre, imbarcando 1750 uomini che furono portati in Italia il giorno seguente. Un secondo gruppo si imbarca la sera del 24 settembre per partire alla volta di Brindisi il 25 settembre verso le ore 2.00. La nave da trasporto Probitas, la più grande per stazza e capienza, a causa di un’avaria, è costretta a rimanere in porto. Sarà affondata dalla Luftwaffe il giorno successivo, il relitto segnalato da una boa, ancora oggi giace sul fondo della baia di Santi Quaranta.

Sulla motonave Salvore trovano posto circa 80 tra feriti e ammalati e sul Dubac vengono imbarcati i soldati sbandati, disarmati, senza uniforme né equipaggiamento; in pratica tutti i fuggitivi dal campo di Drashovica. Quando il Dubac prende il largo alla testa del convoglio la tolda è satura di soldati stipati fino all’inverosimile. Sulla sua sinistra si pone il cacciatorpediniere Sirio, mentre la motonave Salvore li segue scortato sulla destra dalla Corvetta Sibilla.

Prima di proseguire nella trattazione due parole sulla nave. Piroscafo da carico da 2.819 tsl, lungo 97,4 metri, largo 14,1 e pescante 6,46, con velocità di 8-9 nodi, il Dubac fu il bastimento più grande tra i pochi mercantili catturati dall’Italia in seguito all’invasione della Jugoslavia, in massima parte consistenti in navi di modesto tonnellaggio.

Piroscafo Dubac.jpg

Verso le 6.00, nel mezzo del Canale d’Otranto, un ricognitore tedesco avvista il convoglio e dopo circa un’ora, uno stormo da combattimento della Luftwaffe composto da 12 Junkers Ju 87 i famigerati “stuka” attacca le quattro navi. La formazione si apre e le navi veloci, per evitare di essere colpite, effettuano ampie manovre e rispondono al fuoco.

Lo fa anche il Dubac, con l’unica mitragliatrice piazzata sulla torretta peraltro subito centrata e distrutta da una bomba, ma la sua stazza e la sua scarsa velocità gli impediscono di manovrare velocemente per evitare il bombardamento. Gli stuka, impietosamente, mitragliano i passeggeri inermi e disarmati durante la picchiata per poi sganciare la bomba sulla tolda. La gran parte viene colpita a morte dai proiettili delle mitragliatrici, molti vengono disintegrati dalle bombe che danneggiano seriamente anche la nave.

Diversi soldati si buttano a mare, altri vengono schiacciati dalla folla che in preda al panico muove disordinatamente. Altri ancora, paralizzati dalla paura, attendono immobili. L’unica arma di difesa di ognuno è la speranza di non essere colpito. Sarà’ una strage immane, secondo una fonte, i morti furono più di 200.

Al termine dell’attacco durato circa venti interminabili minuti, il Dubac, sbandato sul fianco sinistro, tenta il tutto per tutto. A bordo, tra il sangue, le urla e le implorazioni dei feriti, qualcuno organizza le operazioni di salvataggio dei superstiti e della nave. I soldati vengono inviati ad occupare la parte destra del ponte per controbilanciare lo sbandamento a sinistra determinato dalla falla, poi con le macchine al massimo della pressione, la nave procede a tutta forza verso la costa salentina per incagliarsi.

Il Dubac, colpito e sbandato sul fianco sinistro
Il Dubac, colpito e sbandato sul fianco sinistro

L’unico modo per trasbordare i feriti in sicurezza ed evitare l’affondamento del piroscafo è il suicidio sulla secca. Dopo aver ricercato l’incagliamento, i superstiti vengono tratti in salvo dai pescatori di Otranto che, a bordo dei propri pescherecci, li trasportano in salvo. Una volta sbarcati, i sopravvissuti, ancora increduli, baciano la terra, piangendo per la gioia di essere vivi e per il dolore causato dalla morte dei compagni.

Tuttora, il numero delle vittime del Dubac non è certo, non esistendo un elenco di quanti riuscirono a imbarcarsi. Le salme recuperate a bordo del Dubac furono trasportate al cimitero di Otranto su carretti militari trainati da muli; molte delle vittime riposano oggi nel Sacrario militare di Otranto.

Le operazioni di rimpatrio del personale militare e dei civili italiani, in ritirata dalla Dalmazia, dall’Albania, dalla Grecia e dalle isole dell’Adriatico e dello Ionio, incalzati dalle forze tedesche, impegnò intensamente la Regia Marina nelle tre settimane che seguirono all’armistizio.

Con numerosi viaggi compiuti con piroscafi, motonavi, torpediniere, corvette, unità minori ed ausiliarie, fu possibile trasportare tra i 22.000 ed i 25.000 uomini attraverso le due sponde dell’Adriatico e dello Ionio, sottraendoli alla cattura da parte tedesca. Ciò non avvenne senza un pegno: diverse navi, oltre al Dubac furono affondate dagli aerei della Luftwaffe, con centinaia di vittime, forse un migliaio in tutto.

Altre decine di migliaia di uomini, militari e civili, rimasero bloccati sull’altra sponda dell’Adriatico: dall’Albania, in tutto, non sarebbe stato possibile rimpatriare nemmeno seimila uomini, tutti evacuati attraverso il porto di Santi Quaranta (odierna Saranda, all’epoca  chiamata anche Porto Edda, nome imposto nel 1939 in onore della figlia maggiore di Mussolini, Edda), su un totale di circa 140.000.

Grazie per aver letto con tanta il nostro post e con la speranza che vogliate continuare a seguirci anche in futuro Vi salutiamo e diamo appuntamento al prossimo.

Per chi fosse interessato sotto riportiamo la storia del Dubac dopo la fine della guerra. Pochi giorni dopo l’incaglio il vecchio piroscafo – aveva 42 anni – affondò in acque poco profonde là dov’era stato fatto incagliare. Il suo relitto giacque dimenticato per un paio d’anni, ma dopo la fine del conflitto le autorità della Jugoslavia domandarono della sorte del Dubac, e se fosse possibile un suo recupero.

Il relitto venne individuato ed esaminato da alcuni esperti, i quali sostennero che i danni non fossero esageratamente gravi, e che il recupero e riparazione della nave sarebbe stato conveniente.Riportato a galla, il vecchio piroscafo venne rimorchiato a Fiume – ormai annessa alla Jugoslavia e divenuta Rijeka – nell’agosto del 1946, per essere sottoposto alle necessarie riparazioni nei cantieri del Quarnaro.

Erano però molte le navi che necessitavano di riparazioni, nella Jugoslavia dell’immediato dopoguerra: il vecchio Dubac finì con l’essere messo da parte, perché la capacità di riparazione degli oberati cantieri doveva prima essere destinata a navi più grandi e più moderne.

Dopo tre mesi di attesa a Fiume, il Dubac venne rimorchiato nella baia di Soline, nell’isola di Veglia/Krk, e poi nella baia di Klimno, sempre nella medesima isola. Qui fu posto in disarmo a metà novembre 1946; nonostante non fosse che un relitto in attesa di qualcuno che decidesse del suo destino, le autorità jugoslave si presero frattanto la briga di cambiargli il nome, ribattezzandolo Šolta.

Rappezzato alla meglio dopo il recupero ad Otranto, tuttavia, il piroscafo non aveva ricevuto altre riparazioni più estese, e così il 9 dicembre 1946 finì con l’affondare di nuovo nei bassi fondali della baia di Soline. Ciò non impedì il governo della repubblica di Jugoslavia, il 20 gennaio 1947, di assegnare il Šolta, alla neocostituita Jugoslavenska Linijska Plovidba (Jugolinija) di Fiume.

Questo cambio di proprietà non ebbe però l’effetto di risvegliare l’interesse nei confronti della vecchia nave, che continuò a languire semiaffondata a Soline per ben otto anni. Nell’autunno del 1954, venne presa la decisione: non valeva la pena di riparare una nave tanto vecchia e malconcia. Il Šolta sarebbe stato demolito per recuperarne il metallo.

La ditta Brodospas di Spalato, specializzata nei recuperi, fu incaricata dell’ultimo capitolo della vita di questa nave: riportato a galla con l’ausilio di cilindri di sollevamento, l’ex Dubac fu rimorchiato a metà ottobre 1954 nel cantiere di demolizione di Svetome Kaji, e demolito entro il 1955.

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